mercoledì 15 marzo 2017

I LUNEDI' DELL'ESPLORATORE


N. 4

Quarto appuntamento
 dedicato ad un altro esploratore italiano:

GIACOMO BOVE



Nato a Maranzana (AT) il 23 aprile 1852, dopo gli studi primari, frequentò l'Accademia Navale di Genova, diplomato con onore, poté partecipare come Guardiamarina alla spedizione scientifica in Estremo Oriente della nave Governolo. Dopo aver prestato servizio prima a La Spezia e poi a Napoli, il 24 settembre del 1876 saliva al grado di Sottotenente di Vascello.
Nel 1877, inviato a Messina, perfezionò le sue ricerche e i suoi studi sulle correnti marine, inventando persino una "scala di marea", ossia uno scandaglio per le misurazioni idrografiche.
E' forse proprio grazie alla sua specializzazione in questo campo che prese parte come idrografo, alla spedizione dello scienziato scandinavo A.E. Nordenskiold, a bordo della Vega, alla ricerca del "Passaggio a Nord-Est" attraverso il Mar Glaciale Artico, dall'Atlantico al Pacifico (1878-1879).

Rientrato vittorioso a Maranzana, si dedicò ad un nuovo progetto tutto italiano: l'esplorazione nelle Regioni Antartiche.
Purtroppo il costo troppo elevato del progetto fu causa del suo accantonamento.
L'idea di un'esplorazione antartica, però fu ben vista oltre confine, l'Argentina, infatti, capiti i possibili vantaggi ottenibili, finanziò la spedizione modificandone però l'impresa. Una volta tornato dal viaggio, il Bove venne insignito, dal re di Danimarca, Cristiano IX, dell'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine di Danebrog, e la sua città natale, che  già lo aveva omaggiato con una Medaglia d'Oro, il 20 giugno 1880 festeggiò la  sua promozione a Tenente di Vascello donandogli una Pergamena.

Il 3 settembre 1881, Bove salpò da Genova per Rio de Janeiro al comando della spedizione, con lo scopo di studiare il Sud della Patagonia, la Terra del Fuoco e l'isola degli Stati, sopratutto dal punto di vista economico, senza tralasciare la componente scientifica, a bordo infatti si trovavano un geologo, un idrografo, un zoologo ed un botanico. Furono fatte ricerche sulla fauna, sulle profondità marine, sui fossili etc. 
Nei pressi dell'isola di Picton però, una delle navi naufragò in seguito ad una burrasca, l'equipaggio si salvò, ma costrinse il Bove a rientrare a Buenos Aires, dove nell'ottobre 1882, per celebrare comunque l'impresa, gli fu consegnata, dal Presidente della Repubblica Argentina, un'ulteriore Medaglia d'Oro.
Tornato in Italia si mise subito al lavoro per riorganizzare un altro viaggio a completamento di quello non portato a termine. Con il contributo della Società Geografica Italiana e il Lloyd Argentino, Giacomo Bove, il 3 luglio 1883,  partì nuovamente per la sua seconda spedizione in Sud america, tornando l'anno successivo con 25 casse di raccolte antropologiche, zoologiche, botaniche, etnografiche...
Per un certo periodo, in quest'ultimo viaggio partecipò anche lo scrittore Edmondo De Amicis. Il clamore che seguì al suo rientro, entusiasmò il Bove, che pensava di poter finalmente esaudire il suo sogno: l'esplorazione dell'Antartide.
Purtroppo però non fu così, l'attenzione esplorativa si era spostata sul continente Nero, ed il Bove dovette nuovamente accantonare il suo progetto.
Un'altra avventura lo aspettava. Con una collaborazione anglo-italiana, la nuova spedizione lo portò in Congo, risalendo il fiume omonimo dalla foce verso l'interno, cercando di conoscerne il territorio, il commercio, si spinse fino all'Equatore e ancora più a nord, fino alle cascate di Stanley, dove l'esploratore inglese viveva con la popolazione dei Bangala. 


Tornò in Italia nel 1886, molto provato dall'esperienza africana, le continui e altissime febbri lo assalivano spesso, e il suo fisico andava sempre più peggiorando. Il 9 agosto 1887, sfinito anche nello spirito, di rientro da un viaggio in Austria, decise di porre fine alla sua intensa vita terrena.
La salma riposa nella Cappella di Famiglia nel cimitero di Maranzana.









In breve la sua vita di mare e di esplorazione...
ma grazie allo scrittore e appassionato naturalista
Pietro Pisano
conosceremo un altro aspetto
di questo grande uomo dimenticato dalla Storia.

L'autore ricostruisce con estrema attenzione la vita,
la coraggiosa e tragica scelta di morte,
il lascito culturale, e fa chiarezza
sulle vicende di fondazione del sentiero verbanese-ossolano
che al Bove è dedicato:
la più antica (spettacolare ed affascinante)
via ferrata d'Italia.









venerdì 10 marzo 2017

INTERVALLO GASTRONOMICO


IL RISO ANCORA PROTAGONISTA...




 Le origini del riso non sono certe, si ritiene che le varietà più antiche siano comparse oltre quindicimila anni fa lungo le pendici dell’Himalaya. Pare che durante l’Impero Persiano il riso si propagò verso l’Asia occidentale e poi si estese in altre direzioni. Quel che pare certo è che dalle specie primordiali di questa graminacea se ne siano differenziate una ventina. Solo due di queste hanno tutt’oggi una certa rilevanza a scopo alimentare: Oryza sativa, di origine asiatica, e Oryza glaberrima, di origine africana. Le più antiche ciotole in argilla contenenti riso, Oryza sativa, rinvenute in Indocina, risalgono a oltre 5000 anni a.C. e il termine tamil Arisi, da cui pare derivi il nome latino, compare poco più tardi in India, ma i preziosi chicchi giungono in Occidente solo in epoca cristiana, nella Roma imperiale. A coltivare per primi il riso, secondo gli storici, furono gli Arabi in Sicilia, e poi gli Aragonesi: sta di fatto che a metà del XIV secolo il riso si diffonde in Italia grazie ai dominatori spagnoli.

La prima notizia certa sulla coltura del riso riconduce a quella che ancora oggi è la patria risicola d’Italia, la Lomellina. È, infatti, nel feudo di Robbio Lomellina che Ludovico il Moro, Duca di Milano, avvia una coltivazione con la semente ricevuta dal cugino Gonzaga. Di lì a pochi anni il Ducato di Milano si specchierà in migliaia di ettari d’acqua in cui germoglieranno piantine di riso. Anche Gian Galeazzo Sforza, secondo gli storici, contribuì alla diffusione della pianticella, mandando qualche sacco ai Duchi di Ferrara che disponevano di acquitrini. Oggi siamo i maggiori produttori d’Europa. 

Il riso è diventato anche motivo di culto. Dalla Thailandia a Giava, dalla Corea al Giappone, senza dimenticare la Cina, l’oriente è ricco di miti, storie e racconti, ricchi di fascino che rivelano il rispetto e la gratitudine verso questa pianta. Vi sono credenze che ritengono il riso una pianta che possiede un’anima, per cui si organizzano feste e riti propiziatori per rendere benevolo il destino e ottenere raccolti abbondanti.

Il riso ha inciso anche sulle abitudini di vita di molte generazioni, dando vita a figure popolari, come quelle delle mondine, che nel corso dei mesi di coltivazione, dalla primavera ai mesi invernali, si recavano nelle zone di raccolta affrontando grandi difficoltà e sacrifici. Ovviamente ci riferiamo al periodo in cui il riso era coltivato manualmente ed il lavoro delle mondine consisteva nello strappare erbacce.

Una leggenda cinese racconta che in un tempo molto lontano una grave carestia colpì il paese e che il genio Buono, vedendo le sofferenze dei contadini, sacrificò tutti i suoi denti, disperdendoli in una palude. L’acqua trasformò i denti in semi da cui germogliarono poi migliaia di piantine di riso. Da allora, dove c’è riso c’è abbondanza e il lancio dello stesso sugli sposi simboleggia amore e fertilità. Anche in Italia, per augurare agli sposi fertilità e prosperità, subito dopo la cerimonia si lancia il riso. Probabilmente questa tradizione deriva da un vecchio rito greco secondo il quale, per propiziare la fertilità si facevano piovere sulla coppia dolci di riso. Questa usanza è diffusa anche in Indonesia, dove subito dopo il matrimonio si lancia il riso con l’intento però di trattenere l’anima dello sposo che altrimenti, fuggirebbe via.


CONTINUA...




Buon appetito!


giovedì 2 marzo 2017

I LUNEDI' DELL'ESPLORATORE



Terzo appuntamento
.....
molto speciale 


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FELICE DE VECCHI E IL DIARIO DI CAROVANA


Talvolta storie affascinanti, tesori e scoperte, si nascondono dentro i luoghi della quotidianità. Talvolta, anche spazi che crediamo scontati, regalano il gusto della scoperta. Basta saper guardare. Quella di Felice De Vecchi è una di queste rivelazioni riesumate proprio dove meno ci si aspetterebbe: a Rho, nella periferia di Milano. La storia della scoperta di questo personaggio ha i caratteri di un romanzo, un racconto che istituisce un legame tra passato e presente, ricordo e povertà di memoria, che mette in dialogo presente e passato.
Felice De Vecchi morì il 29 aprile del 1862. Da allora, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, della sua vita si sono progressivamente dimenticate le tracce. Il suo ricordo si è frammentato, disperso, in parte irrimediabilmente cancellato, mentre ai suoi effetti personali è toccata la sorte di passare di mano in mano, disperdendo la memoria dell'uomo a cui erano legati. Una parte di questi è rimasta per anni accumulata disordinatamente tra le stanze di casa Vidiserti, a Rho, ed è proprio da qui che ha avuto inizio la storia del rinvenimento della figura di Felice De Vecchi e il lavoro di ricostruzione della sua vicenda.

Lettere, scritti, dipinti, disegni, attestati, documenti, effetti personali, oggetti (recentemente sottoposti a studi, trascrizioni e catalogazione), sono sopravvissuti fino ad oggi facendosi portatori di memoria: essi hanno permesso di ridare colore al fantasma sbiadito di un uomo, un personaggio la cui esistenza trascende i confini dell'individualità per farsi testimonianza, patrimonio condiviso: invitato a parlarci della propria vicenda personale, egli può offrire un punto di vista ancora inedito dal quale osservare il quadro della nostra stessa storia collettiva.
Tra amuleti egizi, disegni sfumati, paesaggi melanconici, vi è un manoscritto, il Giornale di Carovana: racconto del viaggio che Felice intraprese nel Vicino Oriente insieme all'esploratore Gaetano Osculati: dalla Turchia alla Persia, dall'India all'Egitto. Un'esperienza che ha visto i suoi protagonisti, a bordo di piroscafi a vapore o al seguito di grandi carovane, incontrare e condividere momenti con altri uomini, incrociare la propria alle altrui storie, mescolarsi, domandare, confrontarsi con genti differenti e perdersi lungo le vie di città lontane. Un viaggio, un racconto, colmo di sentimenti, presentato oggi, per la prima volta, anche nei suoi capitoli tuttora inediti.
                                                                                                                                (Alice Bitto)
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L'avventura di Felice De Vecchi e Gaetano Osculati ha inizio una mattina, sull'alba, della primavera 1841, quando una carrozza diretta in Austria porta i due viaggiatori a lasciarsi alle spalle i confini patri.
Linz è la loro prima tappa: da qui la lunga risalita del Danubio a bordo di piroscafi a vapore, li deve condurre a varcare i confini d'Europa. I paesaggi lungo le rive mutano rapidamente fisionomia, tra la folla chiassosa e cosmopolita si intravedono già volti dalle strane fattezze e dalle particolari fogge. Il viaggio si presenta a Felice, che al momento della partenza ha 25 anni, come un'esperienza formativa, utile ad acquisire nuove cognizioni. Sensibile, ironico, curioso, vigile osservatore, è pronto a riportare sul suo diario tutto ciò che avrebbe stimolato la sua attenzione: dai monumenti alle testimonianze archeologiche, dai costumi alle abitudini culinarie delle genti incontrate. Carico di attese e aspettative, la navigazione danubiana e la traversata del Mar Nero rappresentano per lui un'anticamera alla realizzazione del suo sogno, e l'attesa si colma di entusiasmo man mano che trascorrono i giorni: «Si direbbe che la sosta notturna e il sonno che ti ha chiuso gli occhi, t'ha portato sull'ali di sognate fantasie in una regione incantevole, in cui tutto è nuovo: usi, architettura, abitanti, fin l'aria che respiri»



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